22 gennaio 2010

LA PRIMA COSA BELLA E'...

La prima cosa bella che voglio dire è che Paolo Virzì ha firmato un film splendido, un capolavoro.
La seconda cosa bella è che è girato a Livorno. La mia città. A poche centinaia di metri da casa mia. Uscivi di casa ed eri negli anni '70. Ganzo.
La terza cosa bella è che ho visto le riprese der firme. Posso dire "io c'ero". Va bè ci s'era tutti a curiosare, a ciacciare. Molti di noi han fatto anche le comparse. E poi dicono che lo spirito del popolo labronico si è estinto. Il film di Virzì ci ha visto tutti coinvolti, tutti stretti attorno a questa 'creatura'. E quasi senza rendercene contro siamo tornati ad essere una comunità.
La quarta cosa bella è che più o meno c'erano tutti: 'ir Marmugi, 'ir Ruffini, 'ir Crestacci, Abi, 'ir Favilla, 'ir Ballantini, 'ir Messeri, la mallia n.9 di Danilo, 'ir Caproni via graffito, Bobo...la Serchi!!
La quinta cosa bella è che Virzì aveva detto che in questo film "si piange, si ride non si fa in tempo a piangere che si ride di nuovo..." . 'Un aveva scazzato. E' vero, cazzo se è vero.
La sesta cosa bella è sentire Valerio Mastandrea parlare livornese.
La settima cosa bella è che la storia di Bruno Michelucci è un po' come la mia. Anch'io come lui sono emigrato a Milano. "Perché Livorno dà gloria soltanto all'esilio e ai morti la celebrità".
L'ottava cosa bella è un risvolto del film solo in apparenza marginale ovvero che alla fine ir vigilino, come è giusto che sia, resta quel che è:un becco malidetto. =)
La nona cosa bella in realtà è anche un pochino brutta. O quantomeno scomoda. Il sottoscritto, insieme alla sua consorte, il film non l'ha visto comodo in poltrona ma seduto sui gradini della sala. Perché, pensate, alla proiezione delle 19.25 del lunedì la sala era zibilla. Presentarsi al botteghino con mezzora di anticipo non è servito a nulla: quarta fila laterale attaccati alla parete. Inevitabile l'accentramento semi-abusivo.
La decima cosa bella è il mare. Perché qua tutto si risolve con un ber bagno (lo dice anche il dottore in una scena). Anche i film. Non appare mai, non si vede mai. Ma alla fine trionfa. E libera tutti.

17 gennaio 2010

"I NOSTRI FIGLI UCCISI DALLO STATO"

LIVORNO - Un corteo guidato da madri che chiedono verità e giustizia per i loro figli morti ammazzati in carcere, in piazza, qualcuno perfino nella propria abitazione. Storie diverse che hanno però un punto in comune: la voglia di sapere la verità. Perché queste madri non hanno dubbi, i loro figli non sono morti per “cause naturali” e non si sono suicidati: sono stati uccisi. E i sospetti in molti di queste storie cadono su secondini, carabinieri e poliziotti ovvero coloro che dovrebbero garantire l’incolumità dei cittadini e non il contrario. Sabato 16 gennaio a Livorno queste madri per la prima volta si sono riunite, si sono conosciute personalmente, hanno fatto fronte comune sfilando in corteo per le strade di Livorno chiedendo verità e giustizia. Anima della protesta Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi, morto nel 2003 all’interno del carcere livornese delle Sughere in circostanze ancora da chiarire. 


Le testimonianze. Insieme a lei chiedono giustizia i genitori di altri ragazzi accomunati dallo stesso doloroso destino: i casi di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi e Carlo Giuliani sono noti alle cronache nazionali ma ve ne sono tanti, troppi, altri: Niki Aprile Gatti, Aldo Bianzino, Stefano Frapporti, Giulio Comuzzi e Riccardo Rasman solo per citarne alcuni. Un corteo pacifico, senza nessuna bandiera di partito per precisa volontà degli organizzatori, dove i partecipanti, circa un migliaio provenienti da varie parti d’Italia, hanno sfilato accompagnati dalle canzoni di Fabrizio De Andrè che hanno fatto da colonna sonora alle testimonianze di amici, genitori e parenti di queste “vittime dello Stato”. La prima è quella di Rita Cucchi, la madre di Stefano, morto a Roma dopo essere stato arrestato in circostanze controverse. Non era fisicamente presente alla manifestazione ma vi ha aderito idealmente inviando una lettera che è stata letta all'avvio del corteo: “Dobbiamo continuare a lottare per ridare dignità alla morte dei nostri figli e per continuare a chiedere verità e giustizia a quelle istituzioni nelle quali abbiamo ancora fiducia non solo come madri, ma come cittadine italiane. Quello che è accaduto a noi non deve capitare ad altri giovani e ad altri genitori, queste morti sono inaccettabili per uno stato democratico e civile come l’Italia”. 


Particolamente toccante la testimonianza di Ornella Gemini, madre di Niki Aprile Gatti, morto a 26 anni nel carcere fiorentino di Sollicciano: “Abbiamo voluto tenere fuori tutti i partiti da questa manifestazione perché quando abbiamo chiesto il loro aiuto ci hanno lasciato soli. Io ho scritto a tutti anche al ministro Alfano che non si è nemmeno degnato di rispondermi, nemmeno tre righe. La verità è che rispondono solo a chi vogliono – ha detto trattenendo a stento le lacrime - questo non è umano, non è normale, non è civile. Mio figlio era un ragazzo normale, incensurato, lavorava come tecnico informatico. Lo hanno accusato di una truffa informatica insieme ad altre persone ma in galera ci hanno sbattuto solo lui. In isolamento. Dopo quattro giorni era morto. Hanno detto che si era impiccato ma sono sicura che non è così”. 


“Ci hanno detto di chiudere”. Qualche polemica è nata sulla gestione della manifestazione sotto il profilo dell’ordine pubblico. A finire nel mirino sono state le autorità ree di aver blindato il centro cittadino per una manifestazione in cui il rischio di incidenti era praticamente nullo essendo organizzato e guidato da mamme. I negozi hanno accolto il corteo con le serrande abbassate per il timore di incidenti. Spiega una commessa: “Sono venute delle persone che ci hanno consigliato di chiudere avvertendoci che sarebbe passato un corteo per le vie del centro. Tra i commercianti della zona si è sparsa la voce e molti per sicurezza hanno chiuso ma non ci hanno detto chi e perché manifestava” .

14 gennaio 2010

QUESTO E' UN UOMO

Dal Corriere delle Alpi apprendo di questo episodio di straordinaria umanità nell'accezione più nobile del termine. Una storia semplice. Damolin, parroco di Ravina, un piccolo borgo trentino ai piedi del Monte Bondone durante una Messa ha rinunciato all'omelia: "Stasera niente omelia - ha detto scendendo dal pulpito - non mi sono comportato bene con un extracomunitario e quindi non mi pare il caso di mettermi a fare la predica a voiNo, niente di grave - ha poi spiegato il parroco che vanta un'esperienza missionaria decennale in Ciad ma ci sono rimasto male. Ho passato una notte tormentata. E, il giorno dopo, non me la sono sentita di predicare agli altri... Tutto qui. Basta". Dopo la squallida vicenda di Coccaglio e la cacciata dei migranti da Rosarno sapere che in Italia esistono anche persone come don Gianni è un sospiro di sollievo, una boccata d'aria fresca. Questo è un uomo.

10 gennaio 2010

DOV'E' DIDOU?

"Lo vedete anche voi. Non c'è John. Vi ricordate di lui? Veniva ogni domenica". I bambini annuiscono. I genitori, dietro, restano in silenzio. Tesi e consapevoli. "Mancano anche Christian, Luarent. E Didou, il piccolo Didou. Mancano i suoi genitori. Erano come voi, con la pelle più scura, venivano dall'Africa. Non ci sono perché li hanno cacciati". Mi rivolgo ai più grandi, ai genitori. Perché loro hanno un ruolo importante, formativo. A voi dico: non vi fate trascinare verso ragionamenti e reazioni che non sono da cristiani. E' facile dire: abbiamo ragione noi. Quando siete nati, Dio è stato chiaro: questo è mio figlio. Lo siamo tutti. Tutti abbiamo diritto alla vita, una vita dignitosa, che non ci umili. Anche quelli di un altro colore, anche quelli che sbagliano sempre. Se vogliamo essere cristiani noi non possiamo avere sentimenti di odio e di disprezzo".


Don Pino Varrà, parroco di Rosarno


da Repubblica.it

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